Brasil, 2023
Cinque persone, cinque incontri – alcuni diretti e altri fatti per vie traverse -, cinque località che raccontano il passato, il presente, i colori e il ritmo di vita del meraviglioso stato brasiliano di Bahia.
Ogni incontro è un racconto composto da testo e atmosfera sonora. Ascolta prima l’atmosfera: ti servirà per immaginare ed immergerti nel posto in cui si svolgerà la storia. Così la Bahia sarà anche un po’ tua!
Se preferisci puoi alternativamente ascoltare l’intera storia letta: avrà l’audio di atmosfera e, a seguire, la lettura del testo.
Questo progetto è stato condiviso per la prima volta in una serata tra amiche/i, caratterizzata da cibo brasiliano, lume di candela, occhi chiusi e storie sussurrate a voce alta: un’esperienza intima, immersiva e meravigliosa.
Grazie a Daianna, occhio sempre attento ai dettagli (chi si sarebbe mai accorta di Astrogilda sennò?) e co-progettista di queste storie.
Five people, five encounters – some direct and others more or less -, five places telling the past, the present and the life rhythm of the beautiful Brazilian state of Bahia.
Every encounter is a story made of text + background sound. Listen first to the soundtrack: it will make you build the atmosphere where the story will take place. This way the Bahia will be a bit yours as well!
If you prefer, alternatively, you can also listen to the whole story in audio format: you will find the soundtrack followed by the reading of the text.
This project has been shared for the first time in an evening with friends, characterized by Brazilian food, candlelight, closed eyes and stories read at loud voice: the result has been an intimate, immersive and beautiful experience.
Thanks to Daianna, and her details-oriented eyes (who would have ever noticed Astrogilda otherwise?): she’s the co-author of these stories.
Cinque persone, cinque incontri – alcuni diretti e altri fatti per vie traverse -, cinque località che raccontano il passato, il presente, i colori e il ritmo di vita del meraviglioso stato brasiliano di Bahia.
Ogni incontro è un racconto composto da testo e atmosfera sonora. Ascolta prima l’atmosfera: ti servirà per immaginare ed immergerti nel posto in cui si svolgerà la storia. Così la Bahia sarà anche un po’ tua!
Se preferisci puoi alternativamente ascoltare l’intera storia letta: avrà l’audio di atmosfera e, a seguire, la lettura del testo.
Questo progetto è stato condiviso per la prima volta in una serata tra amiche/i, caratterizzata da cibo brasiliano, lume di candela, occhi chiusi e storie sussurrate a voce alta: un’esperienza intima, immersiva e meravigliosa.
Grazie a Daianna, occhio sempre attento ai dettagli (chi si sarebbe mai accorta di Astrogilda sennò?) e co-progettista di queste storie.
Atmosfera:
In quell’ora inafferrabile in cui il pomeriggio perde vigore e muta in serata, la signora Orquídea tira un sospiro di sollievo: ha svariati messaggi vocali da ascoltare, e finalmente può farlo appoggiata al parapetto della sua pousada, godendo dell’alito di vento che sfiora la sua pelle color caramello.
Non teme l’impavido altoparlante comunale che, a pochi metri da lei, dedica incessantemente canzoni a “Senhor Jesus dos Passos”, patrono di Lençóis. Né la infastidisce il mormorio della telenovela, in onda su uno schermo televisivo che nessuno degna di attenzioni. Del resto, se fosse stata suscettibile agli stimoli sonori si sarebbe già fatta distrarre dal marito e dal figlio che, alle sue spalle, scavalcano il muro del bagno per dare colpi di martello al soffitto. Tum tum tum.
Ma lei, per l’appunto, ha dei messaggi su cui concentrarsi.
Immersa nella magia dell’ascolto, affida spensierata il suo cospicuo peso al parapetto, lasciando a quest’ultimo l’impegno di mantenere la distanza verticale che la separa dal tavolo dei suoi due avventori – appena giunti alla loro quarta bottiglia di birra.
D’improvviso, un colpo di scena rompe il lento scorrere dei minuti: le orecchie – a sorpresa – all’erta della signora Orquídea captano l’anonimo passaggio di un pick-up, e la animano come se avesse appena ricevuto una scossa.
<< Woooooh, ooooh, ooooo-oooh! >>, inizia a urlare rivolta al mezzo, agitando le braccia. Nel giro di pochi tum tum tum di martello, l’autista percepisce il richiamo – innesca una retromarcia sostenuta – si ferma stridendo davanti alla pousada – lascia che l’altro figlio della signora lanci sul cassone posteriore cinque sacchi di spazzatura.
Il pick-up riparte. Come se nulla fosse accaduto, la signora Orquídea torna ad essere assorbita dal mondo dei messaggi vocali.
I piccoli manghi acerbi di un albero a lato della pousada oscillano, lievemente, al ritmo di “Senhor Jesus dos Passos”.
Lettura:
Atmosfera:
La fatidica mattinata di quel giovedì, giorno del mercatino delle pulci, sarebbe rimasta impressa per sempre nella memoria di Astrogilda.
Il colore del cielo, così luminoso e saturato; l’interminabile frinire delle cicale (ma non smettevano mai?); la strana sensazione di sgranchire le gambe e restare lì in piedi, sotto il sole, all’esterno del centro educativo. Affianco ad una cucina usata e una bombola del gas. In attesa.
In confronto agli anni passati a prendere polvere in garage, il suo acquisto era avvenuto in un batter d’occhio: la sera stessa. Solo che l’atto si era svolto al buio, per cui nessuno aveva mai capito se si fosse trattato di una compravendita o piuttosto di un furto.
Interpellato dai suoi amici, Ota aveva glissato e l’aveva presentata, ridendo, come la sua nuova moglie. Per farla sentire più a suo agio le avevano posto un casco in testa, una sciarpa attorno al petto, dipinto una gamba di rosso e l’altra di blu, e regalato delle infradito. Col passare del tempo le avevano anche assegnato nuovi ruoli all’interno del gruppo: in primis quello di dirigente, per la sua serietà e compostezza, e poi, giacché Ota aveva perso una partita contro Simão, quello di consorte anche di Simão, a settimane alterne.
Non badava tanto alle cerimonie, Astrogilda, ma dal suo punto di osservazione privilegiato a bordo strada si inteneriva scrutando quel gruppo di uomini, riuniti ogni sera fuori dal bar. Non era un bar, per la verità, ma piuttosto una stanzetta con un bancone in mattoni vuoto. E comunque non importava, perché loro non si riunivano per fare cose da bar ma per giocare a domino, godendosi l’aria fresca del tardo pomeriggio.
In due grossi pentoloni accanto a lei, carne e fagioli si insaporivano e sfaldavano ribollendo insistentemente, con lenta pazienza, e un aroma dolciastro arrivava sempre fino alle sue finte narici, a quell’ora lì.
Questo piaceva ad Astrogilda: osservare gli uomini che cucinavano e poi mangiavano tutti insieme, sulle sedie di plastica e davanti alle tessere del domino, mettendo ognuno uno o due reais nel fondo comune – a seconda della propria disponibilità monetaria. La cena comunitaria.
Mentre i pulcini le beccavano i piedi di polistirolo, Astrogilda prestava attenzione all’avanzare della serata, alle prime luci che sfavillavano, alle persone che sollevavano polvere lungo la strada, al suo casco che proiettava ombre lunghe, alle ingenue risate degli uomini in sottofondo.
Prestava attenzione e apprezzava, perché, piuttosto che essere un manichino buttato in un garage, era meglio significare qualcosa per un gruppo di persone, in un certo momento della loro vita.
Lettura:
Atmosfera:
Se l’ardore con cui un desiderio brucia nel cuore fosse sufficiente a trasformarlo in realtà, i suoi piedi sarebbero diventati ali già da un pezzo; ma dato che i piedi restano piedi, corre Timótheo, corre, corre, corre, corre, corre.
Il calare delle tenebre gli è favorevole: offre speranza e protezione. In meno di un’ora l’invisibilità sarà sua alleata.
Salta giù nel pendio, a falcate più grandi di lui, attraverso la boscaglia che graffia e comunque, l’unica cosa che conta, il più lontano possibile da Xique Xique, dove sicuramente hanno già scatenato le sue ricerche.
L’unico punto di riferimento è il fiume Paraguaçu, a fondo valle.
Il mondo non parla; o forse è il fischio nelle orecchie che sopprime ogni suono, a parte quello disperato del respiro. Le pupille sono lucide e dilatate; le gambe in frenetico movimento agiscono sotto gli ordini di un istinto primordiale.
I suoi 18 anni non gli regalano molta esperienza di mondo, ma resistenza fisica sì. Corre, corre, corre, corre, sentendosi all’interno di una bolla ovattata.
I primi pensieri bussano alla testa solo molto tempo dopo, una volta che la percezione di pericolo si allenta leggermente. E cercano di ripercorrere la dinamica degli eventi appena accaduti, senza riuscire a spiegarla bene. La fuga non era pianificata: è semplicemente… successa. Gli occhi sono caduti sull’anello allentato della catena, senza farci troppo caso. È stato il cuore il primo a processare realmente l’informazione, iniziando a martellare all’impazzata come se volesse schizzare fuori dal petto. Solo allora la testa ha capito: un’opportunità unica in tutta la vita. E quindi l’impulso. I piedi che sono scattati, e da lì non si sono ancora fermati.
E adesso?
Per prima cosa dovrebbe sbarazzarsi di ogni dettaglio che possa identificarlo: la stoffa che indossa, la cicatrice sul ginocchio, e magari – se liberarsene fosse anche solo sognabile – il colore della pelle.
Poi dovrebbe stabilire una direzione. Non sa dove andare, ma ha sentito vagamente – e segretamente – raccontare dei quilombos, comunità di fuggitivi nascoste nella giungla; e, pur senza sapere ulteriori dettagli utili, questa informazione è sufficiente ad alimentare la speranza e la falcata inesorabile delle gambe, verso il fiume, verso la selva, verso, forse, la libertà.
Corre Timótheo, corre, mentre Justino Silvestre da Luz ha già promesso una folle ricompensa di duecentomila réis per chi lo trova e riporta.
Corre senza neanche immaginare che un giorno la schiavitù sarà abolita dal Brasile; che un giorno l’intera estrazione mineraria sarà proibita nella Chapada Diamantina; che un giorno Xique Xique sarà solamente un gruppo di pietre in rovina, davanti alle quali i visitanti del futuro faranno fotografie.
Non lo immagina, ma che importerebbe del resto. Lui deve solo correre.
Lettura:
Atmosfera:
Pochi gradivano la piega che Trancoso aveva preso da alcuni anni a questa parte, e Fabi era una tra quei pochi.
Be’, in realtà, essendo arrivata solo da due mesi, non aveva visto che il risultato finale del processo in cui la sonnolenta cittadina di mare si era improvvisamente risvegliata, ammodernata e trasformata in una meta di turismo di lusso. Però sì che ne subiva anche lei le conseguenze, ogni giorno: i costi diventavano sempre più proibitivi e le possibilità sempre più limitate.
Eppure le piaceva tanto, ma proprio tanto, e quando le chiedevano se era contenta di vivere lì si perdeva in un gran sorriso ed esclamava, sognante: << Gosto, gosto, gosto muito! >>.
Dimorava ai margini del centro abitato, in una zona collegata da una pendente dissestata e fangosa che lei chiamava affettuosamente subidinha – “salitina”. La casa le era stata prestata dalla cugina, per conto della quale affittava alcune camere, e appariva come una struttura bianca attorno a cui svolazzavano panni stesi ed erba troppo alta.
A parte la signora a lato con cui condivideva chiacchiere e galline, il suo vicinato era lo specchio dei disagi della città: da una parte terreni in vendita a prezzi folli e case-vacanza in costruzione; dall’altra baracche di fango dove viveva chi non poteva più permettersi di pagare un affitto.
Ma Fabi non dedicava spesso attenzioni al tema, e non perché non se ne dispiacesse, o perché vivesse in una condizione molto più agiata – tutt’altro. Il fatto è che una stella brillava lungo il suo cammino, e non poteva fare a meno di considerare Trancoso un posto benedetto.
Con una cuffia da cuoca in testa, un coltello in mano e due pulcini che seguivano i suoi piedi come un’ombra, trafficava tra caldo e disordine nella stanza che fungeva da cucina, soggiorno e camera da letto. Il centro del suo mondo – cioè il suo bambino – era a scuola, e così poteva avanzare con gli impegni al ritmo pigro che aveva abbracciato da quando si era trasferita in Bahia: un po’ di attività domestiche, un po’ di amaca, un po’ di visita al nuovo orticello e un po’ di giretti a vuoto, avanti e indietro, giusto perché il tempo non si illudesse di avere il controllo sulla sua quotidianità.
Doveva ancora tagliare l’ananas e preparare metà dei panini. Lattuga, maionese e prosciutto cotto. Forse nel giro di qualche settimana l’insalata l’avrebbe raccolta direttamente dall’orto. Chissà: non ne era sicura perché non aveva mai fatto un orto prima di allora, ma era piuttosto ottimista perché le pareva che stesse uscendo bene.
Da lì a qualche ora, dopo aver terminato e avvolto i panini nella pellicola, sarebbe andata in spiaggia a venderli. E li avrebbe venduti tutti, nel girare tra i vari resort e chioschetti, beach club e capanne; facendo lo slalom tra palme e granchi bianchi, lettini e frigoriferi arrugginiti, col suo sorriso ambulante e la borsa colma di cibo e amore. Li avrebbe venduti tutti, perché a Trancoso si vendeva tutto.
E questo era il dettaglio di fondamentale importanza. Nel mezzo del contrasto tra fango e lusso, Trancoso le aveva scavato un posticino per sistemarsi e vendere i suoi panini. E, vendendo i suoi panini, le aveva regalato la possibilità di riniziare da zero, di costruire una nuova vita per lei e il suo bambino, senza chiedere nemmeno una spiegazione o indagare sul suo passato. Una nuova opportunità, e basta.
Per questo percorreva tanto felice il suo nuovo cammino di luce. E gostava muito.
Lettura:
Atmosfera:
Era nata in mezzo alle piante di caffè, ai tempi in cui il caffè ancora lo si poteva coltivare, e se avesse potuto scegliere dove morire non avrebbe avuto dubbi: tra rami di banano e paglia, sotto al cielo di Pati.
La missione avrebbe implicato innanzitutto il recupero del suo vecchio letto, quel giaciglio di rami di banano e paglia in cui aveva dormito per tutta la vita e che non aveva voluto sostituire nemmeno quando la modernità si era affacciata alla valle, offrendo le sue insidiose tentazioni a forma di materasso. Del resto a che le sarebbe servito un materasso? Riposava bene sulla paglia, e comunque le giornate erano troppo piene per pensare al sonno. Sarebbe passata alla storia per aver ceduto alla tecnologia un’unica volta nella sua vita: quella in cui aveva fatto arrivare il frigorifero, trasportato dalle mani e dai piedi di venti uomini, per più giorni consecutivi, tra altopiani, pareti rocciose, giungla e fiumi fino alla sua casa – e tanto bastava.
Nella suddetta casa avrebbe dovuto ora fare ritorno, se avesse voluto compiere la missione “eterno riposo a Pati”, attraversando per l’appunto gli altopiani, le pareti rocciose, la giungla e i fiumi, alla veneranda età in cui non ci si ricorda più la propria età.
La missione era un po’ difficoltosa. Dona Raquel scoppiò a ridere, pensando al destino che le aveva assegnato – e poi tolto – un posto nel mondo così atipico.
Distante da tutto e da tutti, la Valle di Pati era una striscia di foresta atlantica e cascate, racchiusa tra falesie e dominata da due torri rocciose in mezzo. La vita umana al suo interno aveva preso varie forme nel tempo: il chiassoso va e vieni di donne e uomini tra le piantagioni di caffè; gli anni di silenzio, di proteste inascoltate contro il burocrata cittadino che aveva decretato un parco nazionale, di spopolamento, di piante abbandonate al vento; la recente scoperta del turismo ecologico e la conseguente dedizione alla guida e all’ospitalità.
Dona Raquel aveva fluito tra i cambiamenti come un filo d’erba al vento: quando c’erano le piantagioni aveva fatto la contadina; quando c’era la povertà aveva imparato a cucinare foglie di palma e purè di banane verdi – che poi poneva in una grande ciotola da cui si servivano, con le mani, i suoi quattordici figli; quando c’erano i turisti era diventata un’amorevole padrona di casa e fonte inesauribile di chiacchiere.
Ah! Una ventata che odorava di ambay la riportò alla realtà. Proveniva dal sottile albero davanti alla finestra, nella sua nuova casa di Guiné.
A tratti le ricordava l’aroma di laranjeira di Pati, anche se quest’ultimo era più intenso perché si impregnava dei profumi della giungla che lo circondava, ed emanava quindi una fragranza più verde, densa, dolciastra. Al calar del sole questa fragranza volteggiava nell’aria, come in cerca d’ispirazione, accompagnata da un chiacchiericcio di cicale e insetti serali loquaci.
Ah, Pati! In mezzo al nulla, eppure in mezzo al tutto!
Non era ironico? Si era adattata a tutto pur di restare a Pati, e alla fine si era adattata anche a lasciare Pati, cedendo alle insistenze dei figli che si preoccupavano di vederla invecchiare in un posto così remoto. Per questo stava nella sua nuova casa a Guiné, assieme ad un paio di loro, a fantasticare su un glorioso rientro in fin di vita, magari trasportata a forza come il suo vecchio frigorifero.
Scoppiò di nuovo a ridere, Dona Raquel, campionessa di resilienza, provando gratitudine per ogni opportunità che le aveva regalato quel destino col senso dell’umorismo. Il ciclo di mutamenti e adattamenti avrebbe seguito il suo corso nei secoli, trascinando con sé luoghi e persone. Anche la Valle di Pati, nella sua purezza, avrebbe continuato a reinventarsi. E tutti quegli occhi così indigeni, così simili ai suoi, che le aveva lasciato in regalo – cioè i suoi numerosi figli – ne sarebbero stati partecipi.
Lettura:
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