Passaggio a livello

Sri Lanka, 2019

Tempo di lettura: 5min

Ting ting ting.

Nel preciso momento in cui suona la campanella, un uomo si avvicina al passaggio a livello, preme un pulsante e fa abbassare lentamente le sbarre a strisce rosse e bianche. Si fermano a circa un metro d’altezza.

Rallento il passo.

«Stop!», esclama forte un ragazzo, preoccupato forse all’idea che io vada a sfracellarmi contro il treno in arrivo.

«Mi fermo, mi fermo», lo tranquillizzo, e dopo altri due passi, appena raggiunte le sbarre, mi fermo, per l’appunto. Lui si mette a ridere.

 

Due motorini che provengono dalla mia stessa direzione inchiodano affianco a me, mentre un uomo anziano, curvo, scalzo e impavido, si inchina e attraversa tranquillamente le sbarre. Svolta a sinistra e inizia a camminare sui binari. Un passo dopo l’altro; tutti della stessa lunghezza; coi piedi nudi che pestano le lastre di cemento. Resto a guardarlo incantata, mentre sfuma circondato dalla fitta vegetazione tropicale.

 

Dietro ai motorini si forma una fila di tuk-tuk.

Dall’altro lato si affaccia una ragazza straniera; si guarda intorno e si inchina anche lei e attraversa le sbarre. In tutto ciò del treno non si è ancora vista l’ombra.

Riconosco la faccia della ragazza man mano che si avvicina: è una francese che si trovava nel mio ostello fino a stamattina.

«Ciao! Come procede?», mi chiede.

«Tutto bene grazie, tu? Sei in un altro ostello adesso?»

«Più che altro una pensione a conduzione familiare. Ho dovuto lasciare l’ostello perché era pieno e non avevo prenotato.»

Scambiamo un altro paio di battute mentre altri mezzi si fermano e allungano la coda; poi lei si allontana e la saluto.

Ancora niente treno. Un ragazzo su un motorino è impaziente e continua a dare gas avvicinandosi sempre più alle sbarre. Dall’altro lato invece, in prima linea, ci sono altri due motorini, entrambi con un uomo, una donna e un bambino davanti. Uno dei due bambini ha un casco minuscolo; l’altro solo un cappellino.

L’autista di un tuk-tuk scende e inizia a chiacchierare con l’uomo che ha abbassato le sbarre.

 

Ed ecco il treno, finalmente!

Va così piano che mi accorgo del suo arrivo solo a pochi metri di distanza.

Il primo vagone, blu arrugginito, sporge il muso sulla strada dove noi siamo in attesa, e poi si ferma. È il momento di far scendere i passeggeri. Non c’è nessuna apertura delle porte, nessun sistema di sicurezza: il treno ha semplicemente dei buchi per salire e scendere, e l’autista e il suo aiutante sporgono la testa dal finestrino (un altro buco sempre aperto) per controllare quando hanno finito tutti.

Intanto, noi che siamo in attesa di attraversare la strada restiamo fermi, a guardare la scena.

 

Per alcuni lunghissimi minuti, tutto resta fermo. I motorini fermi che guardano il treno; i tuk-tuk fermi che guardano il treno; i pedoni fermi che guardano il treno, io ferma che guardo il treno; l’uomo delle sbarre fermo che guarda il treno; i venditori di cibo da strada lì intorno fermi che guardano il treno; l’autista e l’aiutante fermi che guardano il marciapiede del binario.

Anche il tempo si è fermato, e anche il tempo sta guardando il treno.

 

Poi l’autista preme un pulsante, e uno sbuffo nero esce dalla punta del vagone, assieme ad un rumore assordante.

Il treno riparte lentamente, i passeggeri rimasti ci osservano dai loro buchi, e, nel secondo in cui l’ultimo dei tre vagoni lascia la strada, l’uomo delle sbarre le fa rialzare.

Lentamente, i motorini ripartono, i tuk-tuk ripartono e i pedoni si rimettono in moto. Per un secondo che è durato un’eternità siamo stati tutti connessi; tutti immobili; tutti in condivisione di un senso di attesa, di una minuscola rottura dalla routine quotidiana.

Ed è stato magico.